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L’11 marzo di Torquato Tasso

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torquato tasso

L’ 11 marzo 1544 nasceva, a Sorrento, il poeta e scrittore Torquato Tasso. Egli fu uno dei grandi protagonisti del 500 italiano con il poema cavalleresco la “Gerusalemme liberata”. A 472 anni dalla nascita, mi piace ricordarlo rileggendo uno dei passi più belli della sua opera.

Il duello di Tancredi e Clorinda (XII, 48-70)

Aperta è l’Aurea porta, e quivi tratto

è il re, ch’armato il popol suo circonda,

per raccòrre i guerrier da sí gran fatto,

quando al tornar fortuna abbian seconda.

Saltano i due su ’l limitare, e ratto

diretro ad essi il franco stuol v’inonda,

ma l’urta e scaccia Solimano; e chiusa

è poi la porta, e sol Clorinda esclusa.

Sola esclusa ne fu perché in quell’ora

ch’altri serrò le porte ella si mosse,

e corse ardente e incrudelita fora

a punir Arimon che la percosse.

Punillo; e ’l fero Argante avisto ancora

non s’era ch’ella sí trascorsa fosse,

ché la pugna e la calca e l’aer denso

a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso.

Ma poi che intepidí la mente irata

nel sangue del nemico e in sé rivenne,

vide chiuse le porte e intorniata

sé da’ nemici, e morta allor si tenne.

Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,

nov’arte di salvarsi le sovenne.

Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti

cheta s’avolge; e non è chi la noti.

Poi, come lupo tacito s’imbosca

dopo occulto misfatto, e si desvia,

da la confusion, da l’aura fosca

favorita e nascosa, ella se ’n gía.

Solo Tancredi avien che lei conosca;

egli quivi è sorgiunto alquanto pria;

vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:

vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima

degno a cui sua virtú si paragone.

Va girando colei l’alpestre cima

verso altra porta, ove d’entrar dispone.

Segue egli impetuoso, onde assai prima

che giunga, in guisa avien che d’armi suone,

ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,

che corri sí?” Risponde: “E guerra e morte.”

“Guerra e morte avrai;” disse “io non rifiuto

darlati, se la cerchi”, e ferma attende.

Non vuol Tancredi, che pedon veduto

ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.

E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,

ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;

e vansi a ritrovar non altrimenti

che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno

teatro, opre sarian sí memorande.

Notte, che nel profondo oscuro seno

chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,

piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno

a le future età lo spieghi e mande.

Viva la fama loro; e tra lor gloria

splenda del fosco tuo l’alta memoria.

Non schivar, non parar, non ritirarsi

voglion costor, né qui destrezza ha parte.

Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:

toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.

Odi le spade orribilmente urtarsi

a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;

sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,

né scende taglio in van, né punta a vòto.

L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,

e la vendetta poi l’onta rinova;

onde sempre al ferir, sempre a la fretta

stimol novo s’aggiunge e cagion nova.

D’or in or piú si mesce e piú ristretta

si fa la pugna, e spada oprar non giova:

dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi

cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Tre volte il cavalier la donna stringe

con le robuste braccia, ed altrettante

da que’ nodi tenaci ella si scinge,

nodi di fer nemico e non d’amante.

Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge

con molte piaghe; e stanco ed anelante

e questi e quegli al fin pur si ritira,

e dopo lungo faticar respira.

L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue

su ’l pomo de la spada appoggia il peso.

Già de l’ultima stella il raggio langue

al primo albor ch’è in oriente acceso.

Vede Tancredi in maggior copia il sangue

del suo nemico, e sé non tanto offeso.

Ne gode e superbisce. Oh nostra folle

mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

Misero, di che godi? oh quanto mesti

fiano i trionfi ed infelice il vanto!

Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)

di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.

Cosí tacendo e rimirando, questi

sanguinosi guerrier cessaro alquanto.

Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,

perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:

“Nostra sventura è ben che qui s’impieghi

tanto valor, dove silenzio il copra.

Ma poi che sorte rea vien che ci neghi

e lode e testimon degno de l’opra,

pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)

che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,

acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,

chi la mia morte o la vittoria onore.”

Risponde la feroce: “Indarno chiedi

quel c’ho per uso di non far palese.

Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi

un di quei due che la gran torre accese.”

Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,

e: “In mal punto il dicesti”; indi riprese

“il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,

barbaro discortese, a la vendetta.”

Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,

benché debili in guerra. Oh fera pugna,

u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,

ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!

Oh che sanguigna e spaziosa porta

fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,

ne l’arme e ne le carni! e se la vita

non esce, sdegno tienla al petto unita.

Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto

cessi, che tutto prima il volse e scosse,

non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto

ritien de l’onde anco agitate e grosse,

tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto

quel vigor che le braccia a i colpi mosse,

serbano ancor l’impeto primo, e vanno

da quel sospinti a giunger danno a danno.

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta

che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.

Spinge egli il ferro nel bel sen di punta

che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;

e la veste, che d’or vago trapunta

le mammelle stringea tenera e leve,

l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente

morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta

vergine minacciando incalza e preme.

Ella, mentre cadea, la voce afflitta

movendo, disse le parole estreme;

parole ch’a lei novo un spirto ditta,

spirto di fé, di carità, di speme:

virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella

in vita fu, la vuole in morte ancella.

“Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona

tu ancora, al corpo no, che nulla pave,

a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona

battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.”

In queste voci languide risuona

un non so che di flebile e soave

ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,

e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sen del monte

scaturia mormorando un picciol rio.

Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,

e tornò mesto al grande ufficio e pio.

Tremar sentí la man, mentre la fronte

non conosciuta ancor sciolse e scoprio.

La vide, la conobbe, e restò senza

e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morí già, ché sue virtuti accolse

tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,

e premendo il suo affanno a dar si volse

vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.

Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,

colei di gioia trasmutossi, e rise;

e in atto di morir lieto e vivace,

dir parea: “S’apre il cielo; io vado in pace.”

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,

come a’ gigli sarian miste viole,

e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso

sembra per la pietate il cielo e ’l sole;

e la man nuda e fredda alzando verso

il cavaliero in vece di parole

gli dà pegno di pace. In questa forma

passa la bella donna, e par che dorma.

Come l’alma gentile uscita ei vede,

rallenta quel vigor ch’avea raccolto;

e l’imperio di sé libero cede

al duol già fatto impetuoso e stolto,

ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede

la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.

Già simile a l’estinto il vivo langue

al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.

Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Collana I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976

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  1. […] La storia della festa del papà L’11 marzo di Torquato Tasso […]

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